Festa del SS. Crocifisso
L’11 gennaio, si celebra la festa in onore del SS. Crocifisso, molto sentita dagli abitanti della città e in particolar modo dagli appartenenti alla marineria. Si narra, infatti, che grazie all’intercessione del Crocifisso, nei primi del ‘900, un gruppo di navi da pesca scampò a una violentissima mareggiata. Per questo sono proprio i marinai gelesi a donare il panno di cotone nel quale il Crocifisso è avvolto.
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La prima festività dell’anno viene celebrata l’undici gennaio con riti solenni in chiesa in onore del SS. Crocefisso, venerato nell’antica chiesa del Carmine. In questo giorno, si festeggia il patrono dei marinai che è il SS. Crocefisso, le messe si susseguono una dopo l’altra e la chiesa è sempre piena di fedeli, alcuni dei quali, per grazia ricevuta, fanno anche “u trapassu” cioè il digiuno per l’intera giornata. La chiesa in quel giorno è sempre presidiata da un folto gruppo di marittimi, gente di mare devotissima al SS. Crocefisso. Una serie di quadri raffiguranti velieri in difficoltà in mari tempestosi adornano le pareti della chiesa del Carmine, si tratta di ex voto dei marinai miracolati dal SS. Crocefisso, che li ha salvati, assieme ai loro bastimenti, da sicura morte.
La storia del SS Crocefisso è raccontata dal Canonico Rosario Damaggio, custode del manoscritto di Benedetto M. Candito.
Parecchi secoli addietro, alcuni marinai gelesi, navigarono lungo le coste della “Magna Grecia” e capitati in un paese, si cui si ignora il nome, conobbero una donna sposata con un ebreo. Questa, cristiana, teneva in casa, in una volta sotterranea, per paura del marito, una immagine in gesso del Santissimo Crocefisso di palmi sette, a cui prestava di nascosto fedele omaggio e da cui riceveva tutte le Grazie che domandava. Temendo di essere sorpresa un giorno o l’altro dal marito ebreo, e più che per lei, temendo l’ irriverenze che sarebbero venute alla Santa Immagine, decise di sbarazzarsene, certo a malincuore, offrendolo in dono ai marinai gelesi colà capitati. Mentre con costoro trattava l’offerta, sopraggiunse il marito, che volle sapere l’oggetto della loro conversazione. La povera donna, tutta tremante, non potè nascondere la verità, e il marito da buon ebreo negoziante s’adirò per l’offerta gratuita e chiese del denaro ai marinai gelesi che già avevano visto l’immagine del SS. Crocefisso e che volevano portarsela ad ogni costo. Accettarono il patto della compravendita, ma che valore aveva quell’artistica immagine? Chi era in grado di determinarlo? L’ebreo, pensando ad un lucroso incasso propose “mettiamolo in una bilancia e voi mi darete tanto denaro quando questo Crocefisso pesa”. I marinai gelesi si guardarono in faccia dallo stupore, ma il capitano della barca che ne rea il padrone, certo Antonio Eura, ispirato da Dio, subito accettò l’offerta.
Ma quale meraviglia! Col peso di pochissimi denari il piattello della bilancia si abbassò mentre il piattello dov’era collocato il SS. Crocefisso salì in alto. I marinai contenti, subito, lo collocarono nella barca e, rinunciando al resto del viaggio ritornarono a Gela. Patron Antonio Eura collocò in casa sua, nel luogo più decente, l’immagine del SS. Crocefisso, e dopo pochi anni, morendo lo lasciò ad una stretta parente conosciuta come zia Domenichella, raccomandandole di tenerlo sempre in grande considerazione. Correva l’anno 1544.
In quei tempi avvenne a Gela, come piazza d’ami, transitassero delle truppe di fanti e cavalieri.
Era il 6 agosto, giorno della festa del SS. Salvatore, la cui chiesa era situata a Capo Soprano (quindi fuori le mura) in un fondo denominato “villa del Salvatore”. In detto giorno, per privilegio regale, si faceva la fiera e quindi vi era una moltitudine di popolo e moltissimi erano stranieri.
A zia Domenichella, che aveva la sua casa in un angolo dei quattro canti del Carmine era chiesto spesso dai viandanti assetati qualche sorso d’acqua. E siccome erano in tanti, a causa del forte caldo, a chiedere acqua fini che la giara di zia Domenichella si svuotò.
La richiesta di un po’ d’acqua non cessò e zia Domenichella tutta dispiaciuta dovette loro negarla dicendo che la giara si era svuotata e quindi non aveva più acqua da offrire.
La forte sete di un soldato lo spinse a non credere a zia Domenichella e sollevò il coperchio della giara. Il soldato chiamò zia Domenichella facendole notare che la giara era piena fino all’orlo e grande fu la meraviglia di tutti quelli che prima avevano visto la giara vuota. Zia Domenichella dette da bere a tutti quelli che chiedano un po’ d’acqua e la giara rimaneva sempre piena fino all’orlo. La donna visto quel che le stava succedendo alzo gli occhi al cielo e gridò al miracolo.
Quel recipiente non si svuotò più per quindici giorni, nonostante tutti accorressero, per la notizia del miracolo, ad attingervi acqua.
Un avvenimento così importante convinse i Padri Carmelitani a consigliare a zia Domenichella di cedere alla chiesa del Carmine detta immagine del SS. Crocefisso, che fu collocata sull’altare della SS. Annunziata, sotto cui esisteva la sepoltura di Patron Antonio Eura e dei suoi eredi. Correva l’anno 1602.
Una ostinata siccità minacciava di distruggere il raccolto dell’anno. Pubbliche preghiere si facevano nelle case della nostra città; vennero trasportati in processioni varie statue di Santi e poiché l’acqua si faceva ancora desiderare i nostri antenati decisero di portare, in processione penitenziale il SS. Crocefisso per le arse campagne. La processione arrivò fino a Montelungo nella chiesetta di Santa Oliva e ritornò, ma con massima fretta, perché il cielo si era oscurato e a processione appena terminata venne giù una pioggia dirotta che ristorò la campagna e assicurò il raccolto. Aumentò la devozione verso il SS. Crocefisso e i fedeli facevano a gara a portare candele ed olio da ardere sull’altare dando molto lavoro a “Fra Pietro” , frate con compiti di sacrista, che con speciale cura puliva la cappella e curava le lampade al SS Crocefisso recitando ogni giorno preghiere in onore delle “Cinque Piaghe”.
Un mattino il suddetto frate nel controllare le lampade votive, si accorse che la tovaglia dell’altare, ove stava il SS. Crocefisso, c’erano delle gocce di sangue. Credendo che si fosse trattato di sangue di topo ucciso da qualche gatta, non vi diede importanza, cambiò la tovaglia e recitò come al solito le sue preghiere. Ma l’indomani trovò le stesse gocce di sangue sulla tovaglia, perplesso alzò gli occhi verso il SS. Crocefisso e vide che esso stillava gocce di sangue: allora gridando al miracolo corse in convento a portare la sbalorditiva notizia.
Il Priore, Padre Elia da Mazzarino, si recò presso le autorità ecclesiali e civili per raccontare quanto avvenuto.
La notizia si sparse in un baleno per tutta la città, fu un accorrere di popolo alla chiesa del Carmine, chi per pregare chi per far risaltare ciò che pensava. Cioè ad un trucco organizzato dai monaci per attirare gente alla loro chiesa.
I monaci accettarono di deporre il SS. Crocefisso dall’altare e sistemarlo in sacrestia per provare che tutto era vero, prepararono il “casciarizzo”, un letto di bambagia e bianche tovaglie, circondato da lampade accese, e vi fu adagiato il SS. Crocefisso. Furono chiuse le finestre, serrata la sacrestia e la chiave conservata da don Vincenzo La Rosa, allora Governatore e Capitano d’Armi di questa città.
Correva il 29 marzo 1602, ch’era il venerdì della Settimana di Passione.
L’indomani, rientrati in sacrestia, trovarono la bambagia intrisa di sangue ed il Crocefisso che sudava sangue da tutto il corpo, specie dalla ferita del costato, che prima di allora era aperta, mentre adesso trovavasi serrata. A tale vista i Magistrati e i Religiosi impallidirono e si buttarono genuflessi a terra, poi lo asciugarono con bambagia e avrebbero voluto levarlo dalla sacrestia, ma le Autorità non vollero.
Fu lasciato nello stesso posto per altri due giorni ed la sudorazione del sangue durò fino alla Domenica delle Palme, allora fu tolto dalla sacrestia ed al canto di “Vexilia Regis” fu collocato, alla presenza di una immensa folla, sull’altare Maggiore.
Nel 1670 l’illustrissimo signor duca Pignatelli, padrone di questa città, volle quella croce spruzzata di sangue per mandarla nella sua città di Castelvetrano, sostituendola con una più bella quale ha oggi, ma certo di minor valore.
Appena fu consegnata la suddetta croce ad alcuni marinai che dovevano portarla a Mazzara del Vallo e di là a Castelvetrano, si levò in mare una tremenda tempesta ed allora fu visto il primo miracolo: marinai, atterriti, calarono sulle onde la croce ed il mare istantaneamente si calmò.
Il SS. Crocefisso restò al suo posto.
Il corso della storia ci porta all’11 gennaio del 1693 a ventun’ora cioè verso le ore 15 , i fedeli gelesi si trovavano nella chiesa del Carmine per una funzione in onore del SS. Crocefisso, quando avvertirono una tremenda scossa; era il terremoto. Il popolo spaventato uscì all’aperto invocando il nome di Gesù Crocefisso e di Maria Santissima d’Alemanna.
Vi furono crolli in varie parti della città ma non si ebbero vittime.
In un giorno di Marzo di quel triste anno, sull’imbrunire, nel Piano del Carmine convennero la Municipalità, il Clero, le Comunità religiose, i nobili e il popolo tutto, e tutti, prostati in ginocchio, proclamarono Patrono e Protettore della città il SS. Crocifisso insieme con la Beatissima Vergine della Manna, levando supplici lo sguardo ai loro simulacri che troneggiavano, tra splendori di luminarie e odore di incensi, sull’altare che era stato allestito dinanzi alla porta maggiore della Chiesa. Promisero, inoltre, (e un notaro consacrò la promessa in un solenne documento) di festeggiare l’11 Gennaio di ogni anno “in infinitum et in perpetuum” quale memoriale della grazia ricevuta. Una celebrazione che impegnasse i cuori con la penitenza del digiuno e la partecipazione alla messa eucaristica, e che coinvolgesse la Municipalità con l’offerta da parte dei Giurati, suoi rappresentanti, di una somma di denari e di una torcia ornata di fiori e alta quando il più anziano di essi.
Da allora l’11 gennaio, in adempimento della solenne promessa di quel lontano 1693, è grande festa al Carmine.
Le modalità celebrative, nel corso del tempo, hanno subito variazioni. Non c’è più, fra l’altro, l’offerta di contributi in denaro che i Magistrati civici (i Giurati: oggi Sindaco e Assessori) facevano alla Chiesa per la solenne celebrazione, né il più anziano fra essi, pittorescamente, porta in dono alla Chiesa una torcia adorna di fiori e di altezza pari alla sua.
Ma le omelie del pergamo che, in un’ampia trama di rievocazioni, fanno vivere i prodigi e le grazie del Simulacro; le torce sfavillanti numerose sull’altare; le preghiere corali levantisi dai cuori dei fedeli; i loro canti di ringraziamento e di invocazione risuonanti sotto le volte del tempio, il suono delle campane che si effonde festoso nell’aria e penetra – “vox vitae” – nelle case per ampio tratto della città… sono ancora le forme devozionali in cui si esprime, nella ricorrenza festiva dell’”unnici ‘i jnnaru”, la venerazione delle genti per il “Crocifisso Carmelitano”.
E le genti devote, dal simulacro visibile, levano i loro pensieri e i loro sentimenti alla grande realtà, invisibile ma presente, di cui esso è simbolo sacro: a Gesù che vive nella gloria dei cieli.
Fonte: Rosario Medoro – Virgilio Argento